lunedì 17 agosto 2009

UNA VITTORIA DA RICORDARE E DA RIPETERE

Ricorderemo a lungo questo agosto, quarant’anni dopo l’autunno caldo, per la sorprendente vittoria dell’Innse. Di che ci parla questa vittoria?
Del fatto – si dice – che la partita non è chiusa né persa in partenza. Ci torneremo. Ma in primo luogo questa lotta parla della soggettività operaia. Questi operai sanno chi sono: produttori in possesso di un sapere, quindi di un potere; creatori di una ricchezza che qui e ora ha la forma storica – imposta dal capitale e dal suo Stato, contingente – del valore. I soli creatori, essendo il lavoro (vivo e oggettivato) l’unica fonte di ricchezza reale: tutto il lavoro: quello di operai, tecnici e ingegneri nell’industria; quello di ogni altra figura nelle diverse articolazioni della divisione sociale e sessuale del lavoro (anch’essa imposta e contingente). In questa prospettiva risalta la violenza della proprietà capitalistica e del dominio esercitato dal capitale e dal suo Stato.
La consapevolezza di tale stato di cose – non solo la necessità di difendere a ogni costo lavoro e reddito – è stata il motore della lotta dell’Innse, la base della forza e dell’intransigenza, quindi della vittoria. E questa consapevolezza è cuore e sostanza della soggettività. All’insegna della quale ha avuto corso la partecipazione decisiva di un’organizzazione sindacale (la Fiom) che nella ricostruzione e nella manifestazione autonoma della soggettività operaia pone la sua stessa ragion d’essere. Per ciò questa lotta ci ha riportato al ’69 e alle inaudite, sacrileghe domande formulate allora: come e che cosa, perché e per chi produrre? Si capisce l’allarme dei guardiani dello stato presente. Trent’anni di inverno (a far data dalla “rivoluzione” reaganiana) hanno desertificato e molto distrutto. Ma non hanno estirpato il seme del conflitto insanabile, che insorge quando meno lo aspetti. Alla vigilia di un nuovo autunno, che la crisi annuncia drammatico.
C’è tuttavia un rischio che va messo a tema. Si è detto e scritto che l’Innse è la punta di un iceberg. Non solo per ricordare le migliaia di imprese minacciate, le centinaia di migliaia di posti di lavoro in pericolo, che di per sé il salvataggio dell’Innse purtroppo non protegge. Lo si è detto e scritto anche per affermare che, come all’Innse si è lottato e vinto, lottare e vincere si può anche altrove! Che, come si è riusciti a sventare il piano furfantesco di un padrone-predone all’Innse, lo stesso si può anche in altre aziende, impedendo che vadano in porto gli intenti speculativi di altri cialtroni! È vero? O è solo propaganda? La lotta dell’Innse può essere generalizzata? O si agitano gratuitamente (irresponsabilmente) attese fideistiche, come se emulare il gesto salvifico dei gruisti scalando una torre di lavorazione del cemento o il Colosseo bastasse a propiziare la vittoria?
La scena sin qui descritta vede solo due attori: il lavoro e il capitale (senza distinguere tra le sue ben diverse anime: i mascalzoni speculatori e gli imprenditori che rischiano e investono sul futuro della produzione). Un terzo elemento deve essere ora chiamato in causa se vogliamo rispondere seriamente a queste domande. E se vogliamo capire che cosa è davvero successo in questa vicenda (il quadro generale in cui si è svolta) e che cosa accadrà nei prossimi mesi: se si metteranno a valore le sue potenzialità o la si lascerà invece rifulgere in uno splendido isolamento.
Certo, la lotta all’Innse è nata dalla volontà consapevole dei suoi operai. Il protagonismo, la spontaneità e l’autonomia operaia restano fattori indispensabili del conflitto di classe. Ma questi fattori non si sono manifestati all’Innse per la prima volta. Non è vero che il conflitto operaio sia venuto meno in questo lungo inverno neoliberista, benché raramente abbia vinto e ancor più raramente lo si sia visto o voluto vedere, soverchiato com’era dalle forze avversarie, non sorretto da forze amiche e silenziato da un’informazione complice e servile. Poiché occorreva – occorre – concludere sin da subito che «non c’è nulla da fare», che «la partita è persa in partenza».
Quello che è mancato alle lotte del lavoro dagli anni Ottanta in poi è stato il concorso, altrettanto necessario, della politica e del sindacato. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Non soltanto la solitudine del lavoro e la sua devastata condizione. Anche le macerie dell’apparato industriale del Paese; la perdita di credito del sindacato; la frammentazione e la drammatica inefficacia della sinistra; la stessa fragilità della democrazia e della Costituzione antifascista. Ora è il momento di por fine a questa lunga storia di capitolazione. Di compromissioni e cedimenti. Di ricorrenti illusioni (qualcuno ricorda l’Ulivo mondiale ai tempi di Clinton, risorto ai nostri giorni con la trasfigurazione di Obama?). Di «intelligenza col nemico».
Sia chiaro: non ci attendiamo l’inverosimile riscatto di tutto il ceto politico e sindacale che ne reca la responsabilità. Le dichiarazioni dell’on. Fassino a sostegno, proprio in questi giorni, della linea cislina e confindustriale di distruzione del contratto nazionale sono chiare a sufficienza. Per tacere delle pervicaci prediche del sen. Ichino, agli occhi del quale il lavoro è pura merce e deve obbedire senza tante pretese ai dettami del mercato capitalistico, vettore di progresso e di modernità. Sappiamo dunque che – se vi sono – le forze disposte a imparare dai propri errori dovranno aprire un aspro confronto in primo luogo tra le proprie file. A cominciare dalla Cgil, che deve ritrovare il coraggio del conflitto nel solco tracciato dalla Fiom, non già limitarsi, in caso di successo, ad un gratuito plauso post factum. E dai settori meno arretrati dello stesso Pd, chiamati finalmente a un serio bilancio delle scelte compiute nei trent’anni della guerra neoliberista contro il lavoro dipendente. Ma se questo coraggio non mancherà, la speranza di voltare pagina dopo questo lungo inverno potrà non esser vana. E le vittorie operaie non limitarsi a sporadici episodi, a «miracoli» di «eroi». Altrimenti?
Altrimenti difficilmente questa speranza, rinata dinanzi al carro-ponte dell’Innse, sopravvivrà a lungo. Ma allora le espressioni di solidarietà e di giubilo per la vittoria di Lambrate si rivelerebbero fatui esercizi retorici da parte di un ceto politico e sindacale ignaro delle proprie responsabilità. Una rara, inaspettata occasione per risalire la china andrebbe sprecata. E sarebbe poi ancora più difficile contrastare le forze – il padronato e la destra – che in questi anni si sono giovate dell’inconsistenza dell’avversario.

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